Nel novembre 1952, a Napoli, durante il III congresso della CGIL, Di Vittorio ed io fraternizzavamo, così come era divenuta consuetudine tra noi sin dal 1945, quando ci conoscemmo. A questa parola: fraternità, noi ci si industriava di dare, in ogni nostro incontro, un senso vivo e corposo. Spirito di fraternità ponevamo nel lavoro che facevamo insieme; di fraternità erano colmi quei momenti di pausa nei quali lui — l’italiano — ed io — il francese — provavamo l’uno su l’altro e l’uno con l’altro la saldezza dei legami che stringono quella che noi siamo usi chiamare la grande famiglia dei lavoratori di tutto il mondo. A Napoli, dunque, cinque anni or sono, una delegazione di lavoratori napoletani, donò un magnifico ritratto — un quadro ad olio — del nostro indimenticabile compagno. — Tu, compagno Presidente, vieni appena due o tre volte l’anno nel mio ufficio della F.S.M., — dissi a Di Vittorio mentre ne ammiravo il ritratto — Non è bene, da parte tua…
Di Vittorio aveva immediatamente capito che io desideravo avere quel quadro che egli aveva nelle mani: rideva; e quel suo ridere gli illuminava il viso di un’espressione buona, fraterna. — Compagno segretario generale, non sarò mai detto che io abbia voluto privarti della mia presenza, qui, al tuo fianco — mi disse con aria gioiosa. E mi consegnò quel piccolo capolavoro, che oggi ha acquistato ai miei occhi un inestimabile valore.
Nei giorni che seguirono il III congresso della CGIL, quel ritratto di Di Vittorio fu collocato nel mio ufficio di Vienna. Il 6 febbraio, la polizia austriaca, come sappiamo, occupò i locali della F.S.M. per estrometterci: così avevano deciso le forze reazionarie internazionali. Il comandante del reparto di polizia (che forse aveva imparato il suo cattivo francese durante l’occupazione nazista della Francia tra il 1940 e il 1944) mi fece comprendere che dovevo abbandonare tutti gli oggetti che si trovavano nella mia stanza di lavoro. — Che cosa fate? — mi domandò appena vide che staccavo dalla parete il ritratto di Di Vittorio. — Dato che parto io, il Presidente della F.S.M. parte con me — gli feci ironicamente. — Questo è il ritratto del Presidente della F.S.M. ? — mi chiese lui con aria tra stupita e incredula. — E’ ben più che questo, caro signore. E’ il ritratto di un vero uomo. Queste furono le parole con cui lo lasciai, fissandolo con aria grave, per fargli comprendere l’abisso di differenza che vi era tra ciò che rappresentava lui e ciò che rappresentiamo noi. Il poliziotto girò la testa e guardò altrove, senza fierezza né arroganza: e, forse, con un po’ di vergogna.
Ho voluto raccontarvi questi ricordi, compagni che mi leggete, per due motivi, che si collegano agli insegnamenti che ci offre la vita, entusiasmante, di Giuseppe Di Vittorio, combattente proletario.
La prima ragione è che la frase che così spesso Di Vittorio pronunciava nei suoi discorsi: “La nostra causa è giusta!” è pregna di una significazione intensa. Non si tratta di un semplice volo oratorio: essa dice che la giustizia sta dalla nostra parte, che è presente in ogni attimo del nostro combattimento. E’ una frase che bisogna saper dire. Occorre, cioè, esser capaci di far trionfare l’idea che la giustizia, la semplice giustizia umana, la grande giustizia morale e sociale, sono valori di cui gli avversari della classe operaia non possono servirsi. Quando Di Vittorio proclamava: “La nostra causa è giusta!“, era un uomo, un uomo vero che gettava in viso agli sfruttatori del popolo una sfida, con la quale annunciava la loro inevitabile disfatta e la nostra immancabile vittoria.
La seconda ragione che mi ha fatto rievocare questi ricordi, è l’ammaestramento che da essi viene: vivere militando al servizio della classe operaia e di tutto il popolo è la vera scuola dove l’uomo attinge le vere forze capaci di fare di lui un vero uomo. Tale, mi pare, il maggiore insegnamento che scaturisce dalla vita di Giuseppe Di Vittorio. Un uomo, vero, vivo, a servizio di una causa giusta: ecco chi è stato colui con il quale, durante gli ultimi dodici anni, ho condiviso responsabilità grandiose in seno alla Federazione Sindacale Mondiale, quegli che tutti noi rimpiangiamo, compagni italiani. Che ognuno di noi — al proprio posto, quale che sia, nelle file del movimento operaio internazionale — abbia il desiderio ardente di perpetuare il ricordo di lui portando avanti la missione storica alla quale egli si è dato interamente, anima e corpo. Così Giuseppe Di Vittorio sarà sempre con noi, in mezzo a noi.
“Rassegna Sindacale”, a. 1957, nn. 21-22, pp. 603-604