Il sindacalista (di Giuseppe Rapelli)

Di Vittorio va al sindacalismo per un imperioso bisogno di giustizia: egli si sente interprete delle aspirazioni dei suoi compagni di lavoro e sente soprattutto la umiltà della sua origine. Bisogna cancellare gradualmente le differenze sociali. Di qui la sua “intuizione”: non gesti di rivolta che a nulla approdano, ma un’azione ordinata rivolta al fine che si è proposto: il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Egli riprende, così, l’impostazione dei vecchi sindacalisti, provveduto com’era di mente e di cuore: bisogna unirsi; è l’unione, è la solidarietà che dà la forza. Bisogna convincerei compagni di lavoro: non bisogna far nascere urti tra i lavoratori. Il “crumiro” ha sbagliato, bisogna persuaderlo a non sbagliare più. C’è il lavoratore “forestiero” che arriva nel paese per lavorare a condizioni più basse di quelle strappate localmente ai “padroni”; ebbene, questo lavoratore non dev’essere trattato come un “nemico”, è una vittima anche lui dell’ingiustizia sociale, bisogna spiegargli il danno che la sua azione inconsapevolmente politica dei lavoratori che lo libererà dal carcere, dove era costretto a seguito di un’agitazione sindacale.Avrà egli avvertito, allora, la maggior forza che viene ai lavoratori dal “suffragio universale” più che dallo “sciopero generale”?
Non saprei rispondere. Ma in un certo senso è la smentita a Sorel quella ch’egli vive nell’esperienza del 1921 e che diventa per lui adesione alla tesi della conquista politica del potere ai lavoratori. Anche così si prepara il suo successivo ingresso nel Partito Comunista.
Quand’egli riprenderà nel 1943 i contatti “legali” col mondo del lavoro italiano, si accorgerà dei mutati tempi, di quale traccia l’esperienza fascista dell’ordinamento sindacale giuridico abbia lasciato tra i lavoratori, e come essa abbia generalizzato un sistema contrattualistico, di cui si dovrà tener conto, e che renderà difficile la ripresa del mondo del lavoro con le sole armi del vecchio sindacalismo prefascista.

L’accordo sulle Commissioni Interne del settembre ’43 è soprattutto voluto da uomini del Nord: Buozzi, Roveda, Quarello. Eppure Di Vittorio — il pugliese, il bracciante meridionale, il sindacalista — comprenderà successivamente che il problema delle Commissioni Interne è fondamentale per la costruzione di un potere sindacale e di una democrazia operaia che sa valersi anche della eredità contrattuale fascista, e porti i lavoratori ad una attivizzazione diretta senza correre il pericolo di una nuova burocratizzazione sindacale, e di una degenerazione “particolaristica” dell’azione sindacale. Di Vittorio tenterà, dapprima, appena avvenuta la liberazione dell’intero territorio nazionale, la strada delle grandi agitazioni e dei grandi accordi nazionali, riuscendovi e contribuendo (del che non tutti gli industriali e i borghesi gli daranno merito) a ristabilire un ordine: un ordine che avrebbe dovuto consolidarsi attraverso l’attuazione della Costituzione repubblicana.
Ma alla formulazione di quell’articolo 39 egli non concordò con chi, come me, voleva le rappresentanze unitarie elette da tutti i lavoratori, iscritti e non ai sindacati, e non previde che, un giorno, sarebbe stato difficile provare il numero degli iscritti, specie realizzandosi la fin d’allora prevista pluralità sindacale. Questa mancata concordanza

ha concorso a ritardare l’attuazione dell’articolo 39 e ha permesso, dopo la scissione del ’48, l’indebolimento del potere sindacale dei lavoratori. Man mano, s’era resa più evidente l’intenzione di molti datori di lavoro di valersi della scissione e dell’anticomunismo per tentare i sindacati concorrenti (CISL e UIL) sul piano delle trattative separate. Certo che, date le origini e la “forma mentis” di Di Vittorio, rimane incomprensibile la sua adesione alla contrattazione aziendale, che spezza l’unità di azione tra i lavoratori delle aziende di uno stesso settore produttivo. La contrattazione aziendale può essere più propria a chi, seguace della “Quadradegimo anno”, vuole il passaggio dal contratto di salario al contratto di società. E’ stato un ripiegamento, quello di Di Vittorio su tale questione, dovuto — ne sono persuaso — a necessità più che a convinzione.
E l’ultimo periodo della vita sindacale di Di Vittorio, a veder bene, si incentrò nella sua attività parlamentare, membro  autorevole della Commissione del Lavoro, e non attorno ai tavoli delle trattative sindacali. L’accordo nazionale sul “conglobamento” del giugno 1954 lo trova tagliato fuori dalla conclusione finale. Gli industriali hanno avuto buon gioco nell’allontanarlo. E da parte industriale si assecondò ormai ogni tentativo per respingere l'”intervento giuridico” nelle questioni sindacali. Meglio, per ora, regolare i lavoratori sul terreno dei rapporti di forza.

La verità è che i lavoratori sono oggi più temuti per la “scheda” che non per lo “sciopero”: di qui il dramma finale del sindacalista Di Vittorio. Egli sentì di dover ritornare ad essere, come agli inizi, apostolo di una coscienza fra i lavoratori, per restituire con l’unione e con la solidarietà, una forza al sindacato e fare del sindacato una scuola. Ricominciare da capo. Per questo hanno particolare valore le ultime parole pronunciate a Lecco. Egli che aveva pur contribuito coi grandi accordi sindacali del ’45, ’46, ’47 a determinare una forza sindacale, per un errore di valutazione, per un eccesso di fiducia in una CGIL incrollabile, ” ormai costretto ad agire più che sul terreno specificamente sindacale su un terreno di competizioni elettoralistiche per le votazioni delle Commissioni Interne. Egli deve perciò proporsi di sostituire a un diminuito “potere sindacale”, un sufficiente “potere politico”, e ricominciare da capo, propagandando idee per rifare una coscienza sindacale ai lavoratori, per ottenere che a una attivizzazione sindacale si accompagni una attivizzazione politica.

Uomo di fede, Di Vittorio è stato “sindacalista” per vocazione. Aveva fiducia in sé e nei lavoratori. Accade però al sindacalista,come può accadere al politico, di compiere l’errore di non proporzionare gli strumenti secondo i tempi. Lo strumento che rende al massimo in un certo momento può rendere molto meno successivamente, e allora il problema sta nel munirsi di altri strumenti di scorta per far continuare la marcia al movimento sindacale e operaio.
La scomparsa di Di Vittorio coincide con una fase critica del movimento sindacale italiano; e per un certo aspetto la aggrava. Ma la sua lezione sta nel dirci che solo attraverso l’azione congiunta, anche se distinta, degli strumenti sindacali e politici si potrà superare l’attuale fase critica. L’esperienza vissuta da Di Vittorio lo può ben insegnare.

“Rassegna Sindacale”, a. 1957, nn. 21-22, pp.599-602