Di Vittorio è stato un grand’uomo che ha portato avanti la classe lavoratrice sin dalla sua giovinezza. Io ricordo anche una cosa: che la sua origine del lavoro è nata nella sua terra, sin da ragazzo. Quando lui lavorava, il padre andava alla masseria, il padre era curatolo, assisteva un’azienda. E avevano una mezza versura così, a mezzadria, e il padre mise a lavorare una persona, a zappare e nel mese di aprile maggio in campagna aveva seminato i piselli. E allora questo qua disse, questa persona, dice: “Portate mio figlio assieme che viene a raccogliere i piselli”, “Va bene”. Andati in campagna, lui si mise a lavorare con la zappa e Di Vittorio si mise a raccogliere i piselli con il panierino. A un bel momento questo qua che stava a lavorare, smise di lavorare e andò a vedere cosa faceva Di Vittorio, se aveva raccolto i piselli o meno. Andato lì e vide che pochi piselli aveva raccolto ancora, così un mezzo chilo. Dice: “Ahò! Ti vuoi decidere o no a raccogliere questi piselli?!”, “Ah – disse – io sono il padrone. Tu sei venuto a lavorare da me e tu adesso vieni a comandare me che mi debbo sbrigare ancora di più”. Di lì parte lo sfruttamento. Di lì capì: “E nella mia terra c’ho una persona a dipendenza ed è venuto lui a comandarmi. Figurati tanti lavoratori che vanno alla dipendenza della borghesia come vengono sfruttati!”. Ecco dove nasce, di lì nasce, proprio da piccola età nasce. Questo è il dono di Di Vittorio, da piccola età. Aveva capito, da lì nasce, cioè lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. “Questo qua l’ho portato nella mia terra a lavorare e nella mia terra mi viene a comandare. Figurati chi va alla dipendenza come vengono sfruttati”. Ecco, nasce, è un dono di natura di Giuseppe Di Vittorio. (…)
Io ricordo quando è venuto in campagna a Ragucci [per una festa dell’Unità, settembre 1957], ci fu un forte ‘santuario’ da Cerignola e dai dintorni, tutti dalla campagna venivano a trovare il compagno Di Vittorio, lì in campagna. E lui diceva tutta la sua vita e vicino c’era la masseria chiamata Torre Alemanna e lui diceva che in quella masseria era piccolo, lui, andava a lavorare e allora alla sera dopo mangiato tutti andavano a letto e lui rimaneva lì col lume della candela e leggeva gli opuscoli. A un certo momento i compagni si svegliavano, dicevano: “Oh, ma vuoi dormire, cosa fai? Ma cosa vuoi diventare, avvocato?”. E lui dice: “Eh, no, non voglio diventare avvocato, però mi interessa leggere questi opuscoli perchè voglio portare la classe operaia alla meta, alla meta finale”. Poi quante volte è venuto a parlare a Cerignola lui diceva che quando partecipava alla Camera, alla Camera dei Deputati, anche gli stessi ministri dicevano: “Ma tu fai tanti elogi di Cerignola, dei pugliesi che sono tutti con te, mentre ci sono i tuoi di famiglia che sono contro di te”. E lui a un certo momento diceva: “E cosa ne faccio, cosa ne faccio dei miei di famiglia, questa è la mia famiglia” un’immensa folla. In piazza Castello sino avanti al Comune, al Municipio, tutto pieno. Dice: “Questa è la mia famiglia, che ne faccio dei miei di famiglia”. Poi diceva quando lui andava alla Camera a difendere i diritti, dice: “Ma tu sei l’agitatore delle masse lavoratrici, non è il popolo…”. E lui diceva, quando veniva a fare i comizi: “Compagni, quando io sto in Parlamento e agito di fronte ai ministri, non mi fate dire delle parole, perchè siete voi – e lui diceva, quando il popolo si muoveva, diceva – ecco, sentite, non sono io, è il popolo che risponde, è il popolo che risponde”. Allora tutte queste cose diceva. (…) Ricordo una cosa che diceva… quando parlava alla Camera dei Deputati dicevano: “Ma cosa vuoi fare tu che non sai. Cosa vuoi fare tu che hai poca scuola. Cosa intendi fare? Tu sei un cafone” – cafone significa ‘un lavoratore’”. E lui: “Sono un cafone e non me la sento, sono un cafone e non me la sento. Però devo portare tutti i cafoni alla meta finale”. Purtroppo non ha visto il progresso da lui portato avanti, la sua strategia.
Da allora sino ad oggi molti passi avanti si sono fatti grazie alla sua intelligenza, al suo tracciato, di tutti gli operai, di tutti i lavoratori. (…)
Poi ho partecipato ai funerali a Roma, quando morì. (…) Quando fu il funerale a Roma la folla immensa, da un posto si trovava a un altro senza muovere i piedi, così come se stavamo in mezzo al mare. Tanta gente, sugli alberi, sui balconi. C’era anche la grossa borghesia, c’erano dei padroni che parteciparono anche e dicevano, piangevano e dicevano: “A parte l’ideale politico di Di Vittorio, però voleva bene a tutti, lui era un comunista, però difendeva tutte le categorie dei lavoratori”. Le signore piangevano, col fazzoletto in mano e piangevano a Di Vittorio.
Antonio Pappagallo (n. 1907), contadino