Il murale “Giuseppe Di Vittorio” – dialogo tra Carlo Levi e Ettore De Conciliis

Fiano Romano, Centro Arte Popolare, ottobre 1974

Carlo Levi «Caro Ettore de Conciliis, questo modello, gia’ realizzato del resto, del monumento a Di Vittorio, mi pare, per molte ragioni, eccellente e per me pieno di richiami, non soltanto per il suo valore di opera d’arte, ma perchè riporta tra noi e nella piazza del suo paese, Cerignola, l’immagine di un grande, e che non può non essere detto e celebrato tale anche da chi sia molto parco nell’usare questa parola, o da chi non fosse per natura amico delle celebrazioni. Una grande figura: per la sua schiettezza, per la sua verità, per la sua complessità, e per aver assunto in sè tutti i problemi fondamentali del nostro tempo, averli vissuti, aver contribuito in modo decisivo a risolverli, conservando una sua personalità straordinaria e poetica, in una vita spesa per gli altri, per il mondo, per creare delle nuove realtà, che si stanno, giorno per giorno, attraverso lotte, difficoltà, dolori, eroismi di milioni di uomini, raggiungendo.
Perchè Di Vittorio, che ho avuto la fortuna di conoscere e con cui ho passato ore indimenticabili, era una figura rara: di chi aveva conservato intatta la sua prima natura, il modo di porsi nel mondo di un bracciante (ai tempi di una Puglia più povera, prima della guerra mondiale, quando la miseria e la non preparazione politico-sociale erano una realtà di fatto), di chi affronta i problemi con tutto se stesso e in maniera diretta e spontanea, di chi non è in nessun modo settariamente legato a un problema particolare, sia esso il più giusto anche o il più nobile, ma anche attraverso la lotta e le vicende della sua vita continua ad essere sempre se stesso, in maniera pura, naturale, fedele alla sua origine, alla sua lealtà, in un modo così eccezionalmente completo e così straordinariamente libero da ogni schematizzazione, da ogni sclerotizzazione, da ogni invecchiamento o legame a struttura di carattere burocratico, da avere attorno a sè una specie di alone di genialità e di poesia.

Io ho passato insieme con lui alcuni giorni quando compiva 60 anni incaricato di fare un suo ritratto, e in quei giorni caldissimi dell’estate, quando saliva al mio studio per farsi dipingere, abbiamo per ore e ore conversato. Parlava: lo ascoltavo e rispondevo, dipingendo. Essendosi stabilito tra noi un intimo rapporto di amicizia, egli era portato a raccontare episodi della sua infanzia, della sua adolescenza, della sua maturità. Qualcuno di questi episodi è conosciuto non solo a me, altri sono riportati nelle sue biografie, altri nel libro bellissimo di Davide Laiolo, e in altri scritti prima e dopo, forse qualcuno di questi episodi è del tutto inedito. Raccontava del suo primo contatto con il lavoro e con la natura, che egli chiamava la sua prima lezione di economia politica. Era un bambino piccolissimo, forse di 5 o 6 anni: e per la prima volta andò a lavorare in campagna.

Cerignola è una specie di grande borgata, una città che ha il carattere di un villaggio di braccianti. Il bambino Di Vittorio non era mai uscito dai confini del paese, non sapeva cosa era un albero, cosa era un prato, cosa era l’aspetto della campagna. Aveva passato gli anni dell’infanzia a giocare con gli altri bambini sui marciapiedi, (quando c’erano i marciapiedi), o nei rigagnoli, (quando c’erano, perchè l’acqua mancava). Era stato arruolato con altri ragazzi a raccogliere piselli: gli avevano dato un sacco da riempire durante la giornata. «Io non avevo mai visto un albero, non avevo mai visto una farfalla, stavo incantato in mezzo a questa natura che era completamente nuova, straordinariamente commovente, affascinante. Ero rimasto tutta la giornata a guardare il cielo e le foglie, dentro un incanto che non potevo vincere, ero felice; ma, arrivata la sera, non avevo raccolto neanche un pisello e il mio sacco era vuoto». A sera venne il padrone: doveva essere un uomo abbastanza saggio, perchè invece di sgridarlo violentemente, o picchiarlo o licenziarlo su due piedi, gli disse, e dopo tanti anni, Di Vittorio mi raccontò, «tu vorresti che io ti pagassi la giornata ma tu non hai raccolto nessun pisello» (aveva forse capito l’incanto subito dal bambino nel suo primo con tatto con un mondo diverso), «Tu vorresti che io ti pagassi la giornata, ma io non ti posso pagare, perchè il prezzo dei piselli è composto da vari elementi: il costo della semenza, il lavoro dello zappatore, di chi annaffia, di chi concima, poi c’è il costo di chi raccoglie, e il guadagno del padrone: tu non hai raccolto niente, io non posso vendere i piselli che non ci sono oggi, tu mi capisci, non posso pagarti. Torna a lavorare domani. Questa fu la prima lezione di economia politica della mia vita».

Il racconto di Di Vittorio era quello di uno scrittore, di un poeta che entra insieme nel mondo del lavoro e in quello della natura e rimane affascinato dalla esistenza della realtà. La capacità di commuoversi per la realtà, che diventerà poi la capacità di muoversi per i grandi bisogni degli uomini, è rimasta in lui sempre immutata. Così in tanti altri racconti meravigliosi, come di quando era con gli anarco-sindacalisti, prima della guerra mondiale, a 16 anni forse, e venne invitato come rappresentante dei Sindacati pugliesi a un congresso a Firenze. Essendo anche quell’estate caldissima, e non essendo lui mai uscito da Cerignola, la madre gli disse «tu vai al nord, portati il cappotto perchè al nord fa freddo» e lui, ancora filialmente docile e infantile, si mise il cappotto, viaggiò, in quei treni lentissimi di allora, imbacuccato nel cappotto di inverno fino a Firenze. All’arrivo avendo un bisogno fisico gli venne indicato il luogo dove poter ritirarsi. Vide per la prima volta un gabinetto, (a Cerignola non esistevano). Tirò una corda, sentì, terrorizzato di aver rotto qualcosa, scendere uno scroscio di acqua. Fece un calcolo mentale «ci saranno 10 litri d’acqua, è quello che guadagna un bracciante in due giorni di lavoro» (l’acqua a Cerignola si vendeva dalle botti nelle strade, si vendeva carissima). «Allora ho capito che c’era un’altra civiltà, che poteva sprecare 10 litri di acqua, due giorni di lavoro di un bracciante, solo per portare via dei rifiuti. Capii che la mia vocazione, il mio dovere era quello di battermi per tutta la vita per liberare gli uomini, per farli veri».

E ancora quando mi raccontava del suo modo di studiare: aveva cominciato, come tutti sanno, col vocabolario, che contiene tutte le parole e quindi tutti i pensieri possibili. Costretto ad emigrare per non essere arrestato, in Svizzera, a 17 anni. «Quello fu l’anno della mia Università, avevo tutto il tempo per leggere». Ma che cosa aveva letto allora? «Leggevo Dante, dopo Leopardi».

I due autori su chi ha creato una cultura propria, prima ancora di aver letto Marx, e la letteratura politica e sociale. Dante era capito da lui come apprendono e leggono i contadini, che trovano nella poesia prima di tutto la verità. «C’era in quegli anni il problema dei mazzieri, per noi difficile e quasi insolubile. Essi erano – mi diceva – dei braccianti come noi che, spinti dalla miseria e da una maggiore energia vitale, erano anche in un certo modo i migliori di noi come forza fisica e volontà, ma si corrompevano, si vendevano ai padroni e costituivano le squadre d’azione per rompere gli scioperi, per bastonare i contadini, per intimorirli e magari ammazzarli. Noi non sapevamo come reagire: se avessimo reagito con la violenza (eravamo più numerosi) le cose sarebbero finite ugualmente male, perché essi avevano dietro di sè la polizia, i giudici, tutta l’autorità dello Stato: avremmo potuto difenderci da qualcuno di loro, ma saremmo finiti tutti in galera. Era difficile decidere come agire, capire il problema. In Dante ho trovato la spiegazione di tutto. Tu ricordi quella terzina di Dante «Ma tanto più maligno e più silvestro si fa’l terreo co mal seme e non colto – quant’elli ha più di buon vigor terrestro» – E’ la descrizione precisa di cosa erano i mazzieri; i mazzieri compagni e fratelli, i migliori tra i braccianti, essendosi rivolti al male, corrotti, erano diventati tanto più maligni e silvestri, quanto più erano pieni di vigore, di virtù naturali. «E capii che bisognava trattarli come compagni e fratelli, persuaderli, riportarli dalla nostra parte. Questo è Dante. Se tu vai in Puglia, troverai ancora i più vecchi dirigenti di camere del Lavoro: quasi tutti erano stati da giovani, dei mazzieri».

Questo modo di leggere i poeti, e non solo di leggere, tipico della cultura contadina, che fa vedere la verità, compito di chi pensa è la spiegazione delle cose attraverso le immagini anche se non hanno diretto rapporto con l’argomento di cui si parla, ma che sono in sè una verità, e una verità contiene in sè tutte le verità. Era il modo di Di Vittorio di legare poesia e verità, di identificarle, di realizzarle nell’azione. Di queste storie potrei raccontarne decine. Sempre ho trovato in lui questo suo grande animo poetico, insieme alla saggezza politica, alla capacità di sintesi dei problemi, alla complessità della visione mai limitata ad un aspetto particolare, ma estesa per capacità naturale a una verità complessiva.
In questo senso, Di Vittorio fu uno degli uomini più grandi e autentici che abbia mai conosciuto: senza il falso supporto di quello che si usa chiamare la cultura, che tutti possono avere, ma che non è veramente cultura quando è acquisita solo mentalmente, come giudizio accettato passivamente, pregiudizio; ma con una profondissima cultura fatta di lotta, di vita, di meditazione, di capacità di comprendere, di agire, di scegliere, di interpretare in modo universale, di creare poeticamente e politicamente. Era un grande personalità non soltanto come sindacalista e politico, ma come essere completo: un capo naturale, un uomo. In questo bozzetto che stiamo guardando, in questo murale nella sua stessa costruzione, nella sua stessa architettura mi pare che tu e i tuoi collaboratori (Rocco Falciano, Pio Valeriano, Wendy Feltman e gli altri) abbiate capito tutto questo e lo rendiate in quel modo che una pittura che si mette in una piazza può valere per l’intero popolo che lo guarda. Il vostro lavoro, la vostra opera è un solido a tre facce, più una sottostante, che si possono vedere nell’insieme e girandoci attorno. In complesso è come una piramide cava con base triangolare, mozzata in alto a differenti livelli: ognuno dei grandi pannelli che la costituiscono tocca uno o molti dei problemi dell’Italia meridionale e in genere della lotta operaia e contadina, dando già subito a chi lo guarda l’immagine della complessità e del legame fra i momenti diversi di una condizione in movimento. Voi avete evitato, mi pare intelligentemente, una pura esaltazione dell’uomo preso a sè come figura dominante; cosa anche legittima che sarebbe stata più limitata, e che si sarebbe esposta ai pericoli di quello che si chiamava una volta il culto della personalità. Invece avete trovato, proprio come concezione base dell’opera, il senso della complessità della personalità di Di Vittorio e insieme del suo legame, della sua identificazione con il movimento del quale si è trovato, con il mondo dei lavoratori, protagonista, con i suoi problemi, con la lotta comune, tutt’uno con la sua persona, da diventare effettivamente il centro motore di tutto il movimento contadino e operaio italiano, e non soltanto italiano, internazionale. La concezione che ha presieduto la vostra realizzazione è, secondo me una idea giustissima, una giusta intuizione di dare, insieme alla persona, la sua identificazione con tutta la vita proletaria, operaia e contadina di tutti questi anni, in particolare nel Mezzogiorno, come anche di tutti i problemi della lotta politica e sociale. Ora vorrei che tu mi dicessi come è organizzato questo tuo lavoro e quali sono le sue dimensioni».

E. De Conciliis «La punta più alta di questo lavoro raggiunge da terra 10 metri e tutta la superficie dipinta è di circa 150 metri quadrati, il tutto è collocato in una piazza che ha la dimensione di circa 2.000 metri quadrati. Il lavoro è stato studiato in relazione alla luce (i pannelli sono inclinati verso lo spettatore per rimanere in ombra rispetto alla luce solare) è stato studiato in relazione ad un ambiente particolare. Tutto, intorno alla piazza, oltre il nuovo edificio comunale, è costituito da edilizia scolastica, edifici destinati a scuole medie ed elementari, alcune di vecchia fabbricazione, altre di recentissima (queste ultime costruite con una concezione molto nuova dell’architettura e della vita scolastica da Gianni Musacchio). E’ un ambiente di studenti che forse ci ha aiutato nel momento del progetto.
Gli anedotti su Di Vittorio, che ho appena ascoltato, sono splendidi e, forse da soli, fanno capire davanti a che tipo di problema ci trovavamo nell’affrontare il progetto, prima, l’esecuzione poi, di questo monumento dipinto, di questo murale, aldilà delle difficoltà tecniche della struttura portante i pannelli, della ricerca espressiva, della sperimentazione e dell’uso dei materiali in un ambiente esterno e con le alte temperature della Puglia. Arrivammo alla decisione di fare questa pittura murale tre anni fa, in occasione di un dibattito pubblico sui problemi dell’arte-società, svoltosi a Cerignola, al quale fu presente anche Ernesto Treccani, insieme con gli amministratori, la popolazione e noi, in un accordo pieno di entusiasmo ma pieno anche di imprevisti (le pratiche per l’approvazione dell’iniziativa da parte delle autorità regionali furono lunghe e controverse). Noi procedemmo poi, con varie riunioni e dibattiti.
Costituimmo (con molte difficoltà e a volte con delusioni e senza risultati) comitati di studenti, di braccianti, di cittadini democratici di Cerignola e con loro ci accordammo sul convenuto dell’opera, sui temi da dipingere, discutendo e scartando le proposte per monumenti solo celebrativi o solo agiografici».

C. Levi «So benissimo (e non soltanto in questo di Cerignola ma anche negli altri lavori, che avete fatto precedentemente e che io conosco, ultimissimo quello di Fiano, cui ho dato un piccolo parziale contributo io stesso) che voi avete, sempre, progettato le vostre pitture in collaborazione continua con la popolazione, cioè facendo riunioni, seguendone anche i consigli, discutendo; so, nel murale di Fiano, ci sono un’infinità di personaggi della lotta contadina e operaia, e su ognuno dei personaggi, entro quella grande bandiera che fa da base, c’è stata una lunga discussione, se metter questa o quell’altra figura, e perchè aggiungerla o escluderla. Ne avrete potuto trarre anche un’indagine sugli affetti e interessi prevalenti, un’indagine che ha, anche, un carattere politico; ora anche qui a Cerignola, c’è stata la stessa cosa?».

E. De Conciliis «Sì, anche a Cerignola, che è la terza volta che noi lavoriamo nel Mezzogiorno, abbiamo usato questo metodo di incontro con la popolazione, esso ci serve per formulare le immagini e ha preso ogni volta, a seconda dell’ambiente sociale delle zone dove abbiamo operato, un carattere particolare. Il primo lavoro fu quello della chiesa di Avellino, nel quartiere più povero della città, l’affresco dedicato al tema della coesistenza pacifica. Il secondo fu fatto in Sicilia, contro la Mafia, a Trappeto, nel centro studi di Danilo Dolci. Il terzo è questo di Cerignola, tutti nel sud, ma potrebbe essere il quarto, se consideriamo Fiano, questo paese del Lazio, come già facente parte del sud Italia, per i suoi problemi, per i suoi caratteri economico-sociali. In effetti questo di Cerignola è proprio il nostro 4° lavoro nel Mezzogiorno, se si considera che i paesi poveri di una parte del Lazio entrano già, per il loro problemi nella «questione meridionale».

Noi ci siamo trovati, per il murale di Cerignola, di fronte a molte difficoltà. Il personaggio del quale dovevamo trattare, Di Vittorio, che è un personaggio eccezionale per la sua straordinaria chiarezza umana, ma insieme particolarmente complesso, che comprende in sè tanti aspetti della vita. Noi non potevamo fermarci a dedicargli solo una agiografia, una apologia del personaggio, che sarebbe stata una ripetizione in pittura di quanto è già noto e può essere noto per altre vie… Per questo abbiamo lavorato dando questa impostazione che vediamo, impostazione che cerca di riunire vari problemi del sottosviluppo, del Mezzogiorno e della sua lotta democratica. Ci siamo trovati a lavorare in una zona in cui lo spazio per la pittura è stato sempre molto scarso. In effetti a Cerignola, come in tante altre parti del Mezzogiorno, la cultura e l’arte sono state sempre un patrimonio privilegiato, un’arma dei più ricchi; la cultura e l’arte sono state sempre opposte a quegli strati popolari, ai quali soprattutto, noi ci rivolgiamo ora, strati popolari che sono, secondo me, i più adatti potenzialmente a sentire e fare dell’arte. Questi strati non sono costituiti solo da braccianti, come verrebbe naturale pensare, quando si parla di Cerignola, ma anche da altra gente, da altre classi sociali, da quello che si usa chiamare ceto medio. Per esso ci sono oggi le condizioni perchè non continui ad usare la sua cultura e la sua arte, come trofeo o elemento di differenziazione dalla classe vicina e sottostante».

C. Levi «C’è una pagina veramente meravigliosa che vorrei ricordarti, dell’autobiografia del bandito Carmine Crocco. (Carmine Crocco, pare non sapesse scrivere, e, quindi, dettò, nell’ergastolo, questa sua autobiografia). Il comando dei cosidetti briganti era in quei giorni, ad Aliano, paese dove io sono stato al confino: la base dei piemontesi era a Stigliano, dove c’era il palazzo dei Principi Colonna, quel principe Colonna che la leggenda dice avesse ucciso il drago che stava nel fiume, e terrorizzava gli abitanti e li uccideva. Carmine Crocco, comandante dell’esercito contadino dei Briganti, dopo aver conquistato Melfi e mezza Lucania incontrò sul greto del Sauro una compagnia di bersaglieri scesi da Stigliano, e la fece a pezzi. Dopo questa giornata in cui i piemontesi credevano di sterminare i briganti e invece furono sterminati, risalì con il suo aiutante il famoso Ninco Nanco, che venne mandato nella foresta verso Accettura, per tagliare la fuga degli abitanti e dei ricchi, a Stigliano. Là il banchetto che era stato preparato per i piemontesi, nel palazzo del principe, venne, invece, mangiato dai briganti. Carmine Crocco mangiò soltanto un uovo e si ritirò nella camera del principe, ma non poteva dormire. Fu l’unica ora di meditazione, e di dubbio che egli descrive. Pensava: «perchè ci ammazziamo in questo modo?». Ma subito si era assolto pensando ad un affronto subito da sua madre, origine, almeno psicologica, della sua ribellione contadina. La mattina, appena alzato, camminando per le sale del palazzo entrò nella quadreria. C’era una raccolta di pitture antiche. Si fermò davanti a un grande quadro che rappresentava il principe Colonna in battaglia, nel Medioevo non so contro chi, forse alle Crociate, chiuso nell’armatura, con la spada alzata contro il nemico. Parlò allora a questo principe nel quadro e gli disse: «Anche tu eri valoroso, anche tu principe Colonna si vede, eri un valoroso, e anche il comandante di quei Piemontesi, che abbiamo ucciso, era un valoroso più grande di te perchè tu eri più armato, avevi più forza, eppure uno dei nostri, un ragazzo di 17 anni, ti ha ucciso più valoroso di te e di lui. Ma c’è questa differenza: tu sei stato ricordato e dipinto: ma nessuno parlerà di me e mi dipingerà, perchè noi siamo povera plebaria».

Questo discorso, che cito a memoria, è il discorso del bandito della guerra contadina, che capiva che i modi del ricordo, della storia, della celebrazione, dell’arte, erano ancora in mano a quelli che comandavano e che, quindi, «nessuno parlerà di me, nessuno mi ricorderà, perchè noi siamo povera plebaria». Ora noi siamo povera plebaria, ma oggi la povera plebaria ha trovato una sua forma di espressione, un suo nuovo linguaggio. Questa forma di espressione è innanzitutto la stessa lotta politica, l’occupazione delle terre, gli scioperi, la presa di coscienza della propria esistenza non più come classe soggetta, ma come classe che rivendica la propria autonomia, e insieme l’arte dei propri autori, cioè di quelli che stanno con loro, che sono loro stessi e coloro che li interpretano direttamente, cioè non vanno verso il popolo, ma sono il popolo stesso».

E. De Conciliis «In questo senso il nostro lavoro si è mosso fin dall’inizio, alla progettazione e per Cerignola, anche prima, quando nacque collettivamente l’idea di dedicare a Di Vittorio una pittura monumentale. Abbiamo cercato di lavorare il più possibile col maggior numero di persone, cercando di evitare i pericoli e le lusinghe di un rapporto tipo populista, che concede tutto a quanto viene indicato dal gusto della popolazione, che come noi può anche sbagliare; voglio dire che nei dibattiti che abbiamo avuto, che ci sono serviti a dare questa particolare forma al murale a Di Vittorio, molte sono state le indicazioni, i suggerimenti, le critiche, e tutto ci è servito, in un senso di reciproca scoperta maieutica, per l’individuazione di valori comuni. Sono venute fuori idee e osservazioni, che a volte ci è sembrato avessero già un loro profondo valore creativo, ma credo insieme non ci abbiano fatto trascurare il nostro modo di intuire i fatti e intendere la specificità del nostro modo di esprimerli come pittori».

C. Levi «Qui vedo, che, dei pannelli principali, quello dove Di Vittorio domina la scena davanti a una bandiera rossa o dentro la stessa bandiera, comprende una folla di contadini: in parte si vedono dall’alto le teste, i loro cappelli, in parte, invece, in primo piano, si vedono altre figure di contadini e di operai, qui in prima fila come in un campo di grano ondeggiante nel vento, mosse dalla propria attività, dalla propria spinta in avanti… In primo piano gli operai, in tuta blu, che avanzano con visi tipici di lavoratori, frammischiati a una folla di contadini: tra questa folla figure che subito si riconoscono. Vedo la faccia di Di Vittorio nei vari momenti della sua vita, i volti dei grandi combattenti popolari del Sud, noti a tutti, quelli dei dirigenti politici e sindacali».

E. De Conciliis «Sì, questo è il pannello dedicato ai contadini ed ai braccianti che si uniscono con gli operai e gli intellettuali intorno a Di Vittorio in questa forma che ricorda l’onda del grano, onda qui fatta di uomini… Sullo sfondo il treno degli emigranti che tornano. E sono quasi cento ritratti tra quelli di Di Vittorio, dei grandi meridionalisti, di politici, di sindacalisti, di intellettuali e anche di tutti i martiri delle lotte per le occupazioni delle terre, da Melissa a Portella delle Ginestre. Poi tante altre facce di personaggi sono noti, prototipi di donne e uomini meridionali. Sono i volti di personaggi di Puglia. Abbiamo scelto insieme con la gente di dipingere, i dibattiti che abbiamo fatto non solo sono stati i dibattiti sulla pittura, ma riflessione su tanta storia meridionale attraverso le facce dei protagonisti. E forse anche il lavoro di preparazione per questa opera è servito a qualcosa: essa si è formata formandoci».

C. Levi «Sì, credo che proprio questi dibattiti che avete fatto siano stati utili, non soltanto per stimolare una riflessione sui personaggi a cui i cittadini di Cerignola sono vicini, ma anche per fare intendere la complessità, l’unità delle forze che hanno contribuito alla nascita del movimento sindacale del Mezzogiorno».

E. De Conciliis «Discutendo e pensando insieme intorno a questi contenuti di storia meridionale siamo arrivati poi a progettare, anche dei modi e delle forme in cui esprimerli. Abbiamo capito che i braccianti, che non avevano occasione prima di occuparsi dei problemi della pittura, che forse hanno visto dei quadri solo in qualche chiesa o in qualche fotografia di giornale, nel momento di pensare in immagini quello a cui più tengono, come forma che resta, entravano già in un processo culturale nuovo e nei problemi specialistici dell’espressione figurativa, del colore, del disegno, delle forme particolari di una pittura murale. Abbiamo visto che è possibile e necessario che la gente si interessi collettivamente all’arte, dall’inizio, dal suo nascere. Così riesce ad apprezzare, poichè se ne è direttamente interessata, a criticare, evitando un’accettazione passiva e conformistica di una opera d’arte, l’imposizione della cultura così della «in Scatola», confezionata altrove e caratterizzata per il sottomercato d’arte del Sud, per i gusti dei nuovi collezionisti meridionali. Tutto questo è nella strategia di una colonizzazione culturale da Nord a Sud operata dall’iniziativa privata del mercato d’arte e talvolta scambiato per decentramento culturale».

C. Levi «Del resto, forse, ancora una volta, anche qui si può riconoscere che una delle funzioni dell’arte è quella di acquisto di coscienza, di conoscenza di sè stessi e del mondo: della rilevazione esistenziale… Qui, in questo profilo, mi pare di riconoscere me stesso: spero che i braccianti abbiano contribuito a questa scelta, o come pittore, o come chi ha vissuto la loro vita, o come fratello o fratellastro. Quello che avevo notato è il suo valore esistenziale, questo riconoscersi nella pittura come protagonisti e non come semplici oggetti senza coscienza. Questo è molto importante che avvenga: credo che in questo senso quest’opera sia veramente utile.
L’altro pannello, il secondo, è quello dedicato all’emigrazione. Qui vi è il treno che parte. E’ il distacco, la frattura, la scissione, l’esilio, la divisione: il problema che sintetizza tutti i problemi, non solo del Sud ma di tutta Italia… E poi quelli che salutano, una selva di mani salutanti davanti a un enorme ulivo che rimane dietro le spalle, che si abbandona, costretti nell’emigrazione forzata di massa: il problema più tragico del nostro paese, che coinvolge tutti e come emigranti o come chi rimane, o come fine dei paesi che perdono la vita, il sangue stesso che li fa vivere e rimangono spogliati, desolati, o come ingorgo e generazione della città del Nord, di confusione alienata e straniera, qui rappresentata da un mondo meccanico, mostruoso, di latta, di ferro, di automobili, di fabbriche altrui, che prendono il posto di questo ulivo antico, abbandonato e lasciato alle spalle.
Questo pannello tocca un punto particolarmente centrale della politica Italiana. Questo, forse, sarà stato capito nelle discussioni. Immagino di sì: Cerignola è uno dei centri vittime di questa malattia, di questo mondo altro, meccanico e disumano, che a volte è sognato come salvezza, ma che è, in verità, una specie di cancro desolante e distruttore delle radici stesse. Infatti, questo ulivo pare senza radici, un ulivo che ha perso la propria terra e il proprio modo di essere, radicato e vivente, e rimane, perciò, forse, come un ricordo, o un contorto punto di partenza verso un avvenire estraneo. Questo pannello tocca il problema più grave della vita Italiana, non solo di Cerignola o della Puglia o di altri paesi nel Sud, perchè coinvolge anche la vita del Nord e di tutta Italia, tocca milioni e milioni di lavoratori, di famiglie di lavoratori, e, da tutti i punti di vista, condiziona i problemi più disparati, fino alla struttura stessa del suolo, del territorio abbandonato ed esposto a sempre maggiore decadenza, a tutti gli errori di una conduzione e scelta politica e economica di cui oggi si rivelano, in una maniera particolarmente grave, le conseguenze».

E. De Conciliis «Alla sinistra di questo pannello c’è l’immagine della città, dipinta in modo che può apparire di più difficile lettura, perchè rimanda a più immagini, complementari tra loro, e non a una solo e precisa idea esistenziale. Ora tutti sono stati d’accordo con questa parte della pittura, senza molte discussioni… Abbiamo visto come la gente capisce immagini che non sono necessariamente semplicistiche. A questo punto, direttamente c’è stato, forse, a Cerignola un incontro tra noi e la popolazione, tra le vite separate di braccianti e di pittori…».

C. Levi «E’ un incontro che avviene veramente, al contrario di quello che credono molti, che un contadino voglia delle immagini semplicistiche o tradizionali. Ho sperimentato molte volte che un contadino ha una capacità di visione molto aperta e profonda, (non deformata da quella mezza cultura della piccola borghesia pretenziosa e che crede di avere dei valori culturali che non esistono), molto pura, molto diretta e tale da consentire di capire molto, molto di più di quanto generalmente non si creda. Non è che un contadino che non ha fatto studi non riesca a comprendere a fondo una espressione anche se gli potranno sfuggire certe allusioni o convenzioni pittoriche. Se l’espressione è reale e non è falsa o sbagliata, vi ritrova la sua verità, tutta la verità. Se il pittore riesce a ritrovare archetipi della memoria, certe cose che non sembrano evidenti sono chiarissime. E poi, ancora una volta, quando qualcuno si conosce e riconosce, per esempio l’emigrante che si vede su quel treno, anche se trasposto in un linguaggio diverso da quello convenzionale, si sente partecipe dell’opera e attraverso l’opera sente che la propria vita ha un valore. Questo terzo pannello, invece, mi sembra sia un Trionfo della Morte: una pittura che rappresenta il mondo dei parassiti, della classe dominante meridionale e non soltanto meridionale. C’è questa grande falce contadina che sta falciando la via: è un augurio e anche una realtà».

E. De Conciliis «La falce è già caduta qui a sinistra, in alto, su quell’immagine che è la metafora del fascismo, mentre intorno ancora esiste corruzione, degradazione, servilismo, tutto un mondo che pesa sulle spalle di quelli che lavorano, di quei zappatori alla base del pannello».

C. Levi «In quest’enorme massa di figure, confuse in questa specie di perdita, di caduta, di fine, e questa figura mostruosa, in alto, che domina in mezzo a un vortice di biglietti di banca, che formano una testa di morto che si vede in distanza… Quello è il cieco che legge senza vedere, quello è il sindaco di una grande città del Mezzogiorno, anche egli abbastanza riconoscibile, poi un ritratto delle massime autorità degli Enti Statali e l’informe massa della borghesia parassitaria meridionale, senza la cui fine non si può veramente avere sviluppo reale. E tutti stanno sotto il taglio di questa falce contadina che è una falce messoria, ma è anche una falce della morte, per loro. E’ una specie di constatazione, e di invito al cambiamento delle strutture, mentre in basso ci sono questi lavoratori chinati su un solco come degli schiavi che stanno per rialzarsi. Questi tre pannelli e, il quarto, più piccolo, di base, che rappresenta un insieme di attrezzi di lavoro e di bandiere del mondo contadino e operaio, messi insieme, sono il ritratto di Di Vittorio, nel senso che sono il ritratto delle condizioni della vita del Mezzogiorno e non soltanto del Mezzogiorno, dominata dalla sua figura, come quella che ne ha espresso compiutamente i bisogni, le necessità e la lotta, che attraverso tutte le difficoltà e le sconfitte parziali, gli arretramenti, le deviazioni, arriverà alla vittoria, conquistata giorno per giorno, mai raggiunta per intervento esterno, ma fatta tutta dall’opera di milioni di uomini che lavorano insieme e costruiscono un mondo nuovo, di cui Di Vittorio è una bandiera. Non per nulla nelle case di Lucania vedevo attaccato al muro il ritratto di Di Vittorio, vicino alla madonna, l’Incoronata nera di Foggia, come un nume tutelare. Ma non è solo una tradizione rituale, idolatrica o religiosa: due divintà, la maschile e la femminile, che dominano un mondo arcaico. La scelta, che ha preso il posto delle altre che c’erano anni prima, come Roosevelt, come il mondo dell’al di là, il luogo del Paradiso in terra, era già una scelta politica. Se era stato scelto il ritratto di Di Vittorio, che i contadini con le puntine attaccavano ai loro «lamioni», era già, sia pure dentro una struttura di carattere quasi magico, una chiara scelta politica, il riconoscimento che uno di loro era il vero rappresentante del mondo contadino. Tutto questo è il ritratto di Di Vittorio. Quindi io credo che Voi abbiate fatto un’opera in sè non soltanto esteticamente rilevante, ma una opera veramente bella nel senso dell’interpretazione politica, sociale e del contributo ad una lotta comune».

E. De Conciliis «Uno fra i contributi alla lotta comune, popolare e democratica c’è stato anche recentemente. Mi riferisco all’attuazione delle regioni e dei comuni. Ora bisogna lottare ancora per la loro completa autonomia politica dal potere centrale anche con la cultura e l’arte, se riteniamo che queste facciano parte dello sviluppo. E’ in questa situazione politica nuova di una delle strutture dello Stato, un Comune, Cerignola, che abbiamo lavorato con il nostro murale. Forse facendo questa opera abbiamo razionalizzato, più di quanto non lo fosse individualmente, il sentimento che già esisteva in quell’attaccare al muro la immagine Di Vittorio vicino alla Madonna, ed è stato il frutto di un pensare insieme, di un uscire da quella antica intimità, per esprimere il più possibile e per tutti».

C. Levi «Vorrei dire ancora una cosa: tu hai detto «razionalizzazione», non è il termine più esatto anche se il tuo pensiero è chiaro e giusto. Voi avete cercato di fare una sintesi, che non è solo razionale, ma anche, insieme, poetica, di una serie di atteggiamenti, di sentimenti, di posizioni politiche, che sono già chiari nella coscienza politica e umana di quello che è già un sentimento, ma che diventato così chiaramente immagine lo esprime come totale realtà; mette la figura del protagonista insieme alle figure di tutti gli altri protagonisti, la folla dei lavoratori. Il sentimento comune vale così nel tempo, resta per le persone che verranno dopo, perpetua una raggiunta unità, un raggiunto sentimento dell’esistenza come autonomia.
L’arte murale pubblica ha di per sè una enorme importanza, si richiama ai grandi periodi della pittura italiana in particolare, che era tutta una pittura pubblica, cioè popolare, dai primitivi al Seicento; era fatta nei luoghi ove il popolo si riuniva: le chiese, i comuni, le corti, dove tutti entravano. E’ proprio col diventare classe dominante la borghesia che nasce la pittura particolare, individuale, che entra in una cosa e non ne esce più, che è goduta soltanto dai proprietari e sottratta all’uso generale. Ora malgrado i grandi tentativi in tempi moderni, come la pittura messicana, che ha ripreso i motivi di un’arte perduta, manca ancora nel mondo una spinta in questo senso, perchè fino a quando domineranno le posizioni individuali o individualistiche, ci sarà la pittura da cavalletto, che serve a pochissimi ed è vista da pochissimi e non entra che nell’intimità familiare o di gruppi limitati, e evita di affrontare problemi di interesse collettivo.
Ora un ritorno alla grande pittura murale, grande non solo come dimensioni, è, direi, una necessità, coerente col movimento popolare trionfante. Il movimento socialista-comunista, deve avere una pittura che corrisponda ai suoi caratteri di una nuova struttura e lingua: la pittura murale. Il fatto di cominciare a farla, anche in paesi che ancora non hanno una struttura di questo genere è già di per sè un’azione politica, un’anticipazione di una realtà che solo parzialmente si è realizzata finora. Non è tanto la visione di quello che si è richiamato realismo socialista, che è un’arte di propaganda, che non vede la realtà o la vede come un roseo sogno astratto, ma è un’anticipazione di una realtà che si sta costruendo e, se anche non ci fosse un’intenzione diretta del pittore, è già un elemento di lotta, non di propaganda, ma di lotta effettiva, per raggiungere fini che sono anche artistici, non soltanto esterni all’arte, ma interni a essa stessa, al suo stesso farsi: e il suo stesso farsi è già un’affermazione di una realtà vivente nel suo nascere. Per questo sono estremamente favorevole a queste realizzazioni di arte pubblica, anche perchè il grande murale apre al pittore una possibilità molto diversa, non soltanto fisicamente, ma per le dimensioni mentali diverse. E’ tutta un’altra concezione della pittura, per cui infiniti problemi si pongono nuovi e si scopre qualcosa che non c’era prima. Le possibilità di realizzazione di arte pubblica sono importanti anche dal punto di vista estetico ed è anche molto importante che avvengano soltanto, (se non ci occupiamo di decorazioni che non hanno altro valore che ornamentale) là dove esiste già una comunità, o un principio di comunità, di carattere collettivo, come a Cerignola.
C’è un rapporto diretto, di scambio reciproco, fra un mondo collettivo, un mondo socialista e l’arte murale. Sarebbe molto bene poter aumentare il numero di queste opere, ma per aumentare il numero di queste opere bisogna aumentare il numero dei luoghi dove prevalgono quelle forze che si sentono rappresentate da queste opere. E’ un reciproco interscambio di valori e di creazioni».

E. De Conciliis «Credo proprio che gli sforzi futuri debbano tendere a rendere più funzionante questo interscambio, il tipo di rapporto tra arte e politica oggi, tra arte e società, per uno spostamento, una gestione e un uso più pubblico dell’arte».

C. Levi «Quando andai in Cile nel 1971, prima di tutte le sventure della barbarie trionfante, il Cile era coperto di pitture; non c’era un muro nel più remoto villaggio che non fosse coperto di opere dipinte da nuovissimi, anonimi artisti. Erano le brigate Ramona Parra, e Inti Perredo, una socialista, l’altra comunista. Non erano pittori ma gruppi, che partiti dal compito di scrivere sui muri «Votate Unidad Popular» erano diventate poi brigate di cultura figurativa, per immaginazione rivoluzionaria. A Cuba vi erano pittori già professionisti, in Cile no, erano operai o disoccupati o ragazze e studenti che erano diventati pittori, creando uno stile. Avevano poi fatto anche un’esposizione al Museo d’Arte Moderna di Santiago, dove dipingevano su grandi telai in pubblico. Era un’iniziativa pubblica e importante: si vedeva nascere, a poco a poco, uno stile d’arte popolare, che era nata da una rivoluzione politica e poi aveva preso in modo autonomo un interesse pittorico…».